Sentenza n. 84 del 2024

SENTENZA N. 84

ANNO 2024

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da:

Presidente: Augusto Antonio BARBERA;

Giudici : Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 71, comma 1, lettere c), s) e v), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), promosso dalla Corte d’appello di Bologna, sezione terza penale, nel procedimento penale a carico di S. B., con ordinanza del 9 maggio 2023, iscritta al n. 116 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2023.

Visti l’atto di costituzione di S. B., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 10 aprile 2024 il Giudice relatore Francesco Viganò;

uditi l’avvocato Luca Andrea Brezigar per S. B. e l’avvocato dello Stato Salvatore Faraci per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio dell’11 aprile 2024.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 9 maggio 2023, la Corte d’appello di Bologna, sezione terza penale, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 27 e 76 della Costituzione – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 71, comma 1, lettere c), s) e v), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), censurando alcuni aspetti della disciplina della pena sostitutiva della detenzione domiciliare ivi introdotta (segnatamente, la durata dell’obbligo di permanenza presso il domicilio designato per l’espiazione della pena; la possibilità di fruire di licenze; le conseguenze penali dell’ingiustificato allontanamento dal domicilio).

1.1.– Il giudice a quo riferisce che S. B. – condannato in primo grado alla pena di nove anni di reclusione per il delitto di peculato continuato, commesso in danno di numerosi soggetti dei quali era amministratore di sostegno – ha presentato in data 22 febbraio 2023 istanza di concordato sui motivi di appello ex art. 599-bis del codice di procedura penale (sulla quale vi è stato consenso del pubblico ministero), chiedendo la rideterminazione del trattamento sanzionatorio in quattro anni di reclusione e l’applicazione della pena sostitutiva della detenzione domiciliare, ai sensi degli artt. 20-bis del codice penale e 56 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale).

La Corte d’appello rimettente ritiene «preliminare» rispetto alla decisione sull’istanza di “concordato in appello” l’esame delle questioni di costituzionalità sollevate, evidenziandone la rilevanza «a fronte della effettiva possibilità di disporre la sostituzione della pena detentiva di cui alla richiesta ex art. 599-bis c.p.p. con la pena della detenzione domiciliare».

1.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, osserva preliminarmente il giudice a quo che l’art. 1, comma 17, della legge 27 settembre 2021, n. 134 (Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari) imponeva al legislatore di mutuare la disciplina della pena sostitutiva della detenzione domiciliare da quella dell’omonima misura alternativa. Ciò sul presupposto di una «ritenuta, e ribadita», esigenza di omogeneità di disciplina tra la detenzione domiciliare sostitutiva e la detenzione domiciliare quale misura alternativa; omogeneità a sua volta finalizzata a «includere, in un’ottica di possibile deflazione processuale, nelle tipologie di pene a disposizione del giudice della cognizione penale, modalità di espiazione della pena detentiva già rimesse in via esclusiva alla valutazione della magistratura di sorveglianza». Pertanto, qualunque difformità di disciplina non «strettamente correlata alla […] natura [delle due misure] e, dunque, in qualche modo, da tale diversa natura imposta e giustificata» comporterebbe «l’introduzione di una disciplina normativa manifestamente irragionevole rispetto al medesimo comparto normativo dell’esecuzione delle sanzioni penali detentive».

1.2.1.– Il rimettente censura in primo luogo – in riferimento agli artt. 3, 27 e 76 Cost. – l’art. 71, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 150 del 2022, nella parte in cui, modificando l’art. 56, primo comma, della legge n. 689 del 1981, stabilisce che la detenzione domiciliare sostitutiva comporti «l’obbligo di rimanere nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico o privato di cura, assistenza o accoglienza ovvero in comunità o in case famiglia protette, per non meno di dodici ore al giorno, avuto riguardo a comprovate esigenze familiari, di studio, di formazione professionale, di lavoro o di salute del condannato», prevedendo altresì che «[i]n ogni caso, il condannato può lasciare il domicilio per almeno quattro ore al giorno, anche non continuative, per provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita e di salute, secondo quanto stabilito dal giudice».

Tale disposizione contrasterebbe, in particolare, con il criterio di delega fissato dall’art. 1, comma 17, lettera f), della legge n. 134 del 2021, che imponeva di «mutuare, in quanto compatibile, la disciplina sostanziale e processuale prevista dalla legge 26 luglio 1975, n. 354» per l’omonima misura alternativa.

Il «diritto del condannato a rimanere lontano dal luogo impostogli per l’espiazione della pena per dodici ore al giorno» e «comunque per almeno quattro ore al giorno», non troverebbe infatti riscontro nella disciplina prevista dagli artt. 47-ter, comma 4, e 47-quinquies, comma 3, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà). Tali disposizioni infatti – rispettivamente per la detenzione domiciliare “ordinaria” e per quella “speciale” – fanno obbligo al tribunale di sorveglianza di dettarne le modalità «secondo quanto stabilito» per gli arresti domiciliari dall’art. 284 cod. proc. pen.; e dunque escludono «qualunque possibilità di allontanamento […] che non sia giustificato dall’impossibilità da parte del condannato di provvedere in altro modo (ricorrendo cioè anche all’aiuto di terzi) alle proprie indispensabili esigenze di vita o dalla necessità di esercitare un’attività lavorativa qualora versi in una situazione di assoluta indigenza».

Diversamente da quanto sostenuto nella relazione illustrativa del d.lgs. n. 150 del 2022, non potrebbe d’altra parte ritenersi che la fissazione di limiti per la permanenza nel domicilio della persona condannata, contenuta nell’art. 71, comma 1, lettera c), del medesimo decreto legislativo fosse imposta dal rispetto del principio di legalità della pena. Da un lato, infatti, una simile giustificazione potrebbe al più «attagliarsi esclusivamente all’individuazione del limite minimo di 12 ore, e non certo a quella del limite massimo di 20 ore di permanenza nel domicilio da parte della persona condannata»; dall’altro lato, tali limiti di permanenza fonderebbero «veri e propri diritti in capo alla persona condannata, che non trovano rispondenza alcuna nell’intero sistema dell’esecuzione della pena detentiva, sia infra-muraria sia extra-muraria».

La disciplina introdotta dall’art. 71, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 150 del 2022 creerebbe inoltre «proprio ciò che il criterio di delega mirava ad impedire», ossia una irragionevole disparità di trattamento nelle modalità di esecuzione della detenzione domiciliare, a seconda che essa sia adottata quale pena sostitutiva, o quale misura alternativa della detenzione, a dispetto della «omogeneità dello status» tra condannati che fruiscano dell’una o dell’altra misura, con conseguente violazione anche dell’art. 3 Cost.

Conseguentemente, il giudice a quo auspica una pronuncia che sostituisca al frammento normativo censurato la previsione secondo cui la detenzione domiciliare sostituiva venga espiata «nelle modalità stabilite dall’articolo 284 del codice di procedura penale, le quali sono richiamate dall’art. 47 ter, comma 4, l. 354 del 1975 e dall’art. 47 quinquies comma 3 l. 354 del 1975».

1.2.2.– Parimenti lesiva degli artt. 3, 27 e 76 Cost. sarebbe la disciplina recata dall’art. 71, comma 1, lettera s), del d.lgs. n. 150 del 2022, nella parte in cui, modificando il primo comma dell’art. 69 della legge n. 689 del 1981, dispone che «[p]er giustificati motivi, attinenti alla salute, al lavoro, allo studio, alla formazione, alla famiglia o alle relazioni affettive, al condannato alla pena sostitutiva [...] della detenzione domiciliare possono essere concesse licenze per la durata necessaria e comunque non superiore nel complesso a quarantacinque giorni all’anno».

La possibilità, per il condannato alla detenzione domiciliare sostitutiva, di fruire di licenze costituirebbe «un’innovazione assoluta che non trova rispondenza alcuna» nella disciplina della detenzione domiciliare quale misura alternativa, poiché la legge n. 354 del 1975 prevede la concessione di licenze solo in favore del condannato in regime di semilibertà (art. 52), oppure del destinatario di misure di sicurezza detentive (art. 53).

La prevista operatività dell’istituto delle licenze per la detenzione domiciliare sostitutiva contravverrebbe così al criterio di uniformità di regolamentazione tra i due istituti, posto dall’art. 1, comma 17, lettera f), della legge delega, così violando l’art. 76 Cost.

Sarebbe altresì vulnerato l’art. 3 Cost., poiché il condannato alla detenzione domiciliare sostitutiva godrebbe, senza alcuna ragionevole giustificazione, di un trattamento privilegiato rispetto al condannato che fruisca dell’omonima misura alternativa, potendo egli beneficiare di quarantacinque giorni annui di licenza, computabili, ex art. 53-bis, comma 1, ordin. penit., nella durata della pena, giusta il disposto dell’art. 76, primo comma, della legge n. 689 del 1981, come modificato dall’art. 71, comma 1, lettera bb) del d.lgs. n. 150 del 2022.

1.2.3.– Analoghi dubbi di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 76 Cost, solleverebbe infine l’art. 71, comma 1, lettera v), del d.lgs. n. 150 del 2022, nella parte in cui, modificando l’art. 76, secondo comma [recte: l’art. 72, primo comma], della legge n. 689 del 1981, stabilisce che «[i]l condannato alla pena sostitutiva […] della detenzione domiciliare che per più di dodici ore, senza giustificato motivo, […] si allontana da uno dei luoghi indicati nell’articolo 56 è punito ai sensi del primo comma dell’articolo 385 del codice penale».

La disposizione contravverrebbe, questa volta, al criterio dettato dall’art. 1, comma 17, lettera n), della legge delega, che imponeva di mutuare dall’art. 47 ordin. penit. la disciplina relativa alla responsabilità penale per la violazione degli obblighi relativi alla detenzione domiciliare. Pur rinviando erroneamente all’art. 47 ordin. penit. – disposizione che regolamenta la diversa misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale – il menzionato art. 1, comma 17, lettera n), avrebbe infatti imposto un’omologazione di disciplina tra detenzione domiciliare sostitutiva e alternativa, «anche per quanto attiene la tutela penale dell’eventuale violazione della prescrizione […] di non allontanarsi dal domicilio imposto per l’espiazione».

In proposito, il censurato art. 71, comma 1, lettera v), del d.lgs. n. 150 del 2022 attribuirebbe rilevanza penale al solo allontanamento non autorizzato di dodici ore dal luogo di espiazione della pena del condannato alla detenzione domiciliare sostitutiva, laddove l’art. 47-ter, comma 8, ordin. penit. prevedrebbe, per il condannato che fruisca dell’omonima misura alternativa, che qualsiasi allontanamento non autorizzato configuri il reato di evasione di cui all’art. 385 cod. pen.

Tale ulteriore disallineamento della disciplina della detenzione domiciliare sostitutiva rispetto a quella della detenzione domiciliare alternativa si porrebbe in contrasto con il menzionato criterio di delega di cui all’art. 1, comma 17, lettera n), della legge n. 134 del 2021, così violando l’art. 76 Cost.; e assieme introdurrebbe un «ingiustificato trattamento di favore» per il condannato alla detenzione domiciliare sostitutiva, in contrasto con l’art. 3 Cost.

In questo caso, il rimettente auspica una pronuncia che riallinei la disciplina delle conseguenze penali dell’ingiustificato allontanamento dal domicilio a quelle previste dall’art. 47-ter, comma 8, ordin. penit.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente inammissibili o, in ogni caso, manifestamente infondate.

2.1.– Quanto alla manifesta inammissibilità, il rimettente avrebbe anzitutto omesso di ricostruire adeguatamente la fattispecie oggetto del giudizio a quo e di esprimersi sull’effettiva accoglibilità dell’istanza di concordato in appello, così non motivando circa la rilevanza delle questioni sollevate, che apparirebbero premature e ipotetiche.

Sotto un diverso profilo, il giudice a quo invocherebbe una pronuncia «manipolativa o additiva in malam partem sotto il profilo sanzionatorio attuale e/o futuro nell’espiazione della detenzione domiciliare sostitutiva»; il che renderebbe le questioni inammissibili, non essendo consentito a questa Corte – per il rispetto del principio di riserva di legge enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost. – «creare nuove fattispecie criminose o […] estendere quelle esistenti a casi non previsti, oltre che […] incidere in pejus sulla risposta punitiva o su aspetti comunque inerenti alla punibilità».

2.2.– Le questioni sarebbero, comunque, manifestamente infondate.

Richiamata diffusamente la giurisprudenza costituzionale relativa al controllo di conformità tra norma delegante e norma delegata, l’interveniente sostiene che l’introduzione della detenzione domiciliare sostitutiva, realizzata dal d.lgs. n. 150 del 2022, sarebbe conforme all’art. 76 Cost., «non esondando affatto» dai principi e criteri di delega di cui all’art. 1, comma 17, lettere d), f), e n), della legge n. 134 del 2021, letti alla luce del «complessivo contesto normativo» nel quale essi si inseriscono.

La riforma preconizzata dalla legge n. 134 del 2021 sarebbe infatti costruita sugli «assi portanti» della rivisitazione delle tipologie sanzionatorie e della connessa estensione dell’ambito applicativo della sostituibilità della pena detentiva; dell’emancipazione delle pene sostitutive dalla sospensione condizionale della pena; del riorientamento delle sanzioni sostitutive verso finalità più accentuatamente special-preventive.

Proprio in ossequio a tali direttrici di fondo, la detenzione domiciliare sostitutiva si configurerebbe come «un istituto ontologicamente diverso dall’omologa misura alternativa da cui si distingue per natura giuridica e disciplina», costituendo «una vera e propria pena irrogabile dal giudice della cognizione penale in sostituzione di pene detentive brevi destinata ad essere eseguita immediatamente dopo la definitività della sentenza senza essere sostituita dal giudice della sorveglianza», come invece avviene per la detenzione domiciliare quale misura alternativa.

Coerentemente, la detenzione domiciliare sostitutiva sarebbe «caratterizzata da elasticità nei contenuti» e regolata in modo parzialmente diverso rispetto alla detenzione domiciliare quale misura alternativa, proprio in ragione della sua natura e funzione di pena sostitutiva della pena detentiva breve, in coerenza del resto con la delega legislativa che imponeva di mutuare la disciplina dall’omonima misura alternativa alla detenzione, ma solo nei limiti della compatibilità.

Gli adeguamenti recati dalle disposizioni censurate sarebbero, in definitiva, coerenti con l’impianto complessivo della delega e con i suoi obiettivi di deflazione processuale e penitenziaria; né comporterebbero un’irragionevole disparità di trattamento rispetto al condannato che chieda di accedere all’omologa misura alternativa, in ragione sia della differenza del «complessivo regime giuridico», sia della garanzia di «un bilanciamento individualizzato con le esigenze di difesa sociale», scevro da «ogni tipo di presunzione soggettiva o oggettiva».

3.– Si è costituito in giudizio l’imputato nel giudizio a quo, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o manifestamente infondate.

3.1.– La parte richiama le linee programmatiche della riforma promossa dalla legge n. 134 del 2021, ossia la razionalizzazione del sistema penale mediante la previsione di pene non carcerarie, certe ed effettive; l’individualizzazione del trattamento sanzionatorio, in ossequio al principio rieducativo di cui all’art. 27, terzo comma, Cost.; il decongestionamento dell’apparato della giustizia penale e la riduzione delle tempistiche processuali.

La riforma delle pene sostitutive mirerebbe precipuamente a dare attuazione a tali obiettivi, dando vita a un sistema nel quale, in fase di cognizione, l’imputato consentirebbe a «rinunciare alla sua libertà, “patteggiando” sulla pena sostitutiva» e andando incontro a una condanna che «verrà certamente eseguita», essendo la pena sostitutiva non sospendibile, né modificabile, in fase esecutiva, a differenza di quanto accade in relazione alle misure alternative alla detenzione, le quali verrebbero applicate al condannato solo diverso tempo dopo la definitività della condanna, e potrebbero comunque essere sospese o modificate.

L’intervento del legislatore delegante avrebbe comportato una «profonda riconfigurazione dei tipi e dei contenuti delle sanzioni sostitutive nonché delle procedure di applicazione ed esecuzione, determinando il loro spostamento dal modello teorico delle “pene in difetto”, connesse e dipendenti dalla pena carceraria di matrice retributiva, al modello del “sospensivo probatorio”», nel quale la pena sarebbe primariamente orientata a finalità non afflittive ma risocializzanti.

In questo contesto, la detenzione domiciliare sostitutiva costituirebbe una «anticipazione dell’omologa pena alternativa», rispetto alla quale presenterebbe «profili risocializzativi più spiccati», comportando per l’interessato la possibilità di fruire di un periodo minimo di permanenza fuori dal domicilio per provvedere alle indispensabili esigenze di vita e salute, così promuovendo l’autoresponsabilizzazione e, al contempo, la preservazione dei legami familiari e sociali. Sarebbe inoltre necessaria l’elaborazione di un programma di trattamento per il tramite degli Uffici di esecuzione penale esterna.

3.2.– Tutto ciò premesso, la disciplina della detenzione domiciliare sostitutiva, introdotta dalle disposizioni censurate, non violerebbe in alcun modo gli artt. 3 e 27 Cost.

In primo luogo, i meccanismi “premiali” connessi alla detenzione domiciliare sostitutiva sarebbero stati introdotti – al precipuo fine di «garantire uguaglianza in concreto e incrementare il fine risocializzativo e rieducativo della pena» – proprio per incentivare la scelta di tale pena sostitutiva «effettiva e certa», rispetto all’omologa misura alternativa alla detenzione, che invece non sarebbe «certa nei tempi e nei modi». La previsione di diverse modalità di esecuzione e di una differente tutela penale per la violazione delle prescrizioni rispettivamente connesse alla detenzione domiciliare sostitutiva e a quella alternativa sarebbe dunque conforme al principio di uguaglianza, oltre che a quelli del giusto processo, non essendo comparabili lo status dell’imputato che, in fase di cognizione, chieda la sostituzione della pena e quello del condannato in via definitiva che chieda di accedere a una misura alternativa alla detenzione.

La pena sostitutiva poi, proprio per le sue caratteristiche, rivitalizzerebbe i fini risocializzativi e rieducativi della pena, sicché non si configurerebbe alcuna violazione dell’art. 27 Cost.

3.3.– Sarebbe altresì manifestamente infondata la censura prospettata in riferimento all’art. 76 Cost., alla luce della giurisprudenza costituzionale, secondo cui, ai fini della valutazione circa la sussistenza del vizio di eccesso di delega, le norme della legge di delegazione che determinano i principi e i criteri direttivi andrebbero interpretate tenendo conto del complessivo contesto normativo e delle finalità ispiratrici della delega.

In specie, a fronte dei già richiamati obiettivi di fondo della legge delega, e del criterio direttivo di «mutuare in quanto compatibile» la disciplina delle sanzioni sostitutive da quella delle omologhe misure alternative, il legislatore delegato «in maniera del tutto oculata» avrebbe modellato la detenzione domiciliare sostitutiva sull’omonima misura alternativa, ridisegnandone in parte i contenuti, al preciso scopo di armonizzarla con gli obiettivi, principi e criteri direttivi impartiti dal delegante, il quale avrebbe lasciato «ampio margine di manovra all’organo tecnico».

La piena conformità della disciplina delle pene sostitutive ai principi e criteri direttivi stabiliti dalla legge n. 134 del 2021, oltre che ai principi costituzionali, sarebbe del resto comprovata dalla circostanza che nessuna delle Commissioni parlamentari che hanno esaminato il disegno di decreto delegato abbia espresso dubbi in proposito.

4.– L’Unione camere penali italiane (UCPI) ha presentato un’opinione scritta in qualità di amicus curiae ai sensi dell’art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, ammessa con decreto presidenziale del 22 febbraio 2024, sostenendo la manifesta infondatezza delle questioni.

Secondo l’amicus curiae, l’art. 1, comma 17, della legge n. 134 del 2021, nel prescrivere al legislatore delegato di «mutuare, in quanto compatibile,» la disciplina della detenzione domiciliare sostitutiva da quella prevista per l’omonima misura alternativa, non avrebbe imposto di regolamentare la materia in maniera identica. Il riferimento al criterio della «compatibilità» andrebbe piuttosto letto alla luce della ratio, dei principi ispiratori e delle finalità sottesi alla riforma promossa dalla legge n. 134 del 2021, che avrebbe inteso perseguire obiettivi di deflazione sul versante sia processuale, sia carcerario.

Tali obiettivi starebbero alla base delle scelte compiute dal legislatore delegato, come risulterebbe dalla relazione illustrativa al d.lgs. n. 150 del 2022, che evidenzia come la riforma delle pene sostitutive – realizzata anche attraverso l’allineamento del limite massimo della pena sostituibile con quello entro il quale in sede di esecuzione può applicarsi una misura alternativa alla detenzione – miri a rivitalizzarne l’uso nella prassi, consentendo al giudice della cognizione di applicare pene, diverse da quella detentiva, destinate a essere eseguite immediatamente dopo la definitività della condanna, senza essere sostituite con misure alternative da parte del tribunale di sorveglianza, spesso a distanza di molto tempo dalla condanna stessa; così incentivando, altresì, l’accesso ai riti alternativi al dibattimento.

In tale prospettiva, il carattere più favorevole della detenzione domiciliare sostitutiva (in punto di presupposti applicativi, modalità di esecuzione, conseguenze in caso di violazione) rispetto all’omologa misura alternativa costituirebbe «un evidente ed ulteriore incentivo al ricorso ai riti alternativi per ottenere una riduzione di pena che consenta l’accesso alla pena sostitutiva anche per reati puniti con pene astrattamente non compatibili».

La citata relazione illustrativa evidenzierebbe poi come l’aggiunta dell’aggettivo “sostitutiva” a ciascuna delle misure introdotte valga a segnalarne la distinzione, quanto a natura giuridica e disciplina, rispetto alle omologhe misure alternative alla detenzione.

La detenzione domiciliare sostitutiva sarebbe, in particolare, configurata quale «pena-programma», caratterizzata da «elasticità nei contenuti, predeterminati dalla legge, perché funzionale alla individualizzazione del trattamento sanzionatorio», in funzione della garanzia di rieducazione e risocializzazione del condannato e, al contempo, di prevenzione speciale. Tale misura – sempre secondo la relazione illustrativa – sarebbe volta a «soddisfare le esigenze umanitarie proprie della detenzione domiciliare/misura alternativa alla detenzione, rappresentando una misura dall’applicazione anticipata e alternativa, rispetto a quella, con migliore e più tempestiva soddisfazione delle esigenze sottese, nell’interesse del condannato e dei suoi familiari».

Le diverse modalità di esecuzione della detenzione domiciliare sostitutiva – che peraltro non comporterebbero necessariamente la permanenza all’esterno del domicilio per dodici ore, essendo rimessa al giudice la determinazione del tempo nel quale l’interessato è autorizzato a lasciarlo, nel rispetto del limite minimo delle quattro ore giornaliere – troverebbero fondamento nell’imperativo costituzionale di personalizzazione del trattamento sanzionatorio e non sarebbero irragionevoli, consentendo invece di «mantenere inalterate le imprescindibili esigenze special-preventive, che peraltro potranno essere assicurate anche con l’utilizzo di strumenti di controllo elettronici».

Le nuove sanzioni sostitutive previste dal d.lgs. n. 150 del 2022 sarebbero state concepite in «un’ottica di risocializzazione del condannato in tempi più rapidi e certi, dunque con modalità più efficienti e rispettose dei diritti costituzionali del condannato, e ciò per porre rimedio alle criticità che ormai da anni manifesta l’esecuzione penale». Tale riforma rivitalizzerebbe le pene sostitutive, finora scarsamente applicate nella prassi, conferendo alle stesse «connotati di razionalità e mitezza sconosciuti alla legislazione previgente», in piena attuazione dei principi costituzionali che il giudice rimettente erroneamente assumerebbe violati.

L’intervento richiesto dal giudice a quo, infine, produrrebbe effetti in malam partem nella sfera giuridica dell’imputato, il quale, in caso di accoglimento delle questioni, «si troverebbe ad essere sottoposto ad una misura dalle caratteristiche diverse e meno favorevoli [rispetto a] quella su cui aveva legittimamente impostato le proprie scelte difensive», in contrasto con la giurisprudenza costituzionale che ha riconosciuto la «natura sostanzialmente afflittiva di norme dell’esecuzione penale che hanno riflessi sulla libertà personale» (è citata la sentenza n. 32 del 2020 di questa Corte).

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Bologna, sezione terza penale, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 27 e 76 Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 71, comma 1, lettere c), s) e v), del d.lgs. n. 150 del 2022.

In sostanza, il giudice a quo dubita della compatibilità con i parametri costituzionali indicati di tre disposizioni della riforma del sistema penale operata con il menzionato d.lgs. n. 150 del 2022, nella parte in cui disciplinano la nuova pena sostitutiva della detenzione domiciliare sostitutiva.

1.1.– La prima di tali disposizioni, l’art. 71, comma 1, lettera c), sostituisce il testo dell’art. 56 della legge n. 689 del 1981, dettando la disciplina generale della pena sostitutiva in questione.

Il giudice a quo censura il primo comma del nuovo art. 56, laddove stabilisce che la detenzione domiciliare sostitutiva «comporta l’obbligo di rimanere nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico o privato di cura, assistenza o accoglienza ovvero in comunità o in case famiglia protette, per non meno di dodici ore al giorno, avuto riguardo a comprovate esigenze familiari, di studio, di formazione professionale, di lavoro o di salute del condannato. In ogni caso, il condannato può lasciare il domicilio per almeno quattro ore al giorno, anche non continuative, per provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita e di salute, secondo quanto stabilito dal giudice».

A parere del rimettente, tale disposizione si porrebbe in contrasto con il criterio di delega dettato dall’art. 1, comma 17, lettera f), della legge n. 134 del 2021, che – nella parte che qui rileva – prescriveva al Governo, «per la semilibertà e per la detenzione domiciliare», di «mutuare, in quanto compatibile, la disciplina sostanziale e processuale prevista dalla legge 26 luglio 1975, n. 354, per le omonime misure alternative alla detenzione»; con conseguente violazione dell’art. 76 Cost.

La disciplina in esame si porrebbe, inoltre, in contrasto con l’art. 3 Cost. – creando una irragionevole disparità di trattamento nelle modalità di esecuzione della detenzione domiciliare, a seconda che essa sia adottata quale pena sostitutiva, ovvero quale misura alternativa alla detenzione – nonché con l’art. 27 Cost.

L’auspicata reductio ad legitimitatem della disciplina dovrebbe effettuarsi, secondo il rimettente, riallineando le relative modalità esecutive a quelle previste per gli arresti domiciliari dall’art. 284 cod. proc. pen., richiamate tanto dall’art. 47-ter, comma 4, quanto dall’art. 47-quinquies, comma 3, ordin. penit.

1.2.– In secondo luogo, è censurato l’art. 71, comma 1, lettera s), del d.lgs. n. 150 del 2022, che sostituisce l’art. 69 della legge n. 689 del 1981.

Il rimettente dubita della legittimità costituzionale del nuovo primo comma dell’art. 69, che prevede, «[p]er giustificati motivi, attinenti alla salute, al lavoro, allo studio, alla formazione, alla famiglia o alle relazioni affettive», la possibilità che al condannato alla pena sostitutiva della detenzione domiciliare siano concesse «licenze per la durata necessaria e comunque non superiore nel complesso a quarantacinque giorni all’anno».

Secondo il giudice a quo, tale previsione non troverebbe alcuna corrispondenza nella disciplina della misura alternativa della detenzione domiciliare. La scelta del legislatore delegato dovrebbe, per tale ragione, considerarsi contrastante con il menzionato criterio di delega di cui all’art. 1, comma 17, lettera f), della legge n. 134 del 2021, e pertanto in violazione dell’art. 76 Cost.

Anche in questo caso, inoltre, l’irragionevole disparità di trattamento così creata tra la disciplina della detenzione domiciliare sostitutiva e dell’omonima misura alternativa darebbe luogo a una violazione dell’art. 3 Cost., oltre che dell’art. 27 Cost.

1.3.– Infine, il giudice a quo censura l’art. 71, comma 1, lettera v), del d.lgs. n. 150 del 2022, che sostituisce l’art. 72 della legge n. 689 del 1981.

La disciplina dettata dal primo comma del nuovo art. 72 – secondo cui «[i]l condannato alla pena sostitutiva della semilibertà o della detenzione domiciliare che per più di dodici ore, senza giustificato motivo, rimane assente dall’istituto di pena ovvero si allontana da uno dei luoghi indicati nell’articolo 56 è punito ai sensi del primo comma dell’articolo 385 del codice penale» – sarebbe difforme da quella prevista dall’art. 47-ter, comma 8, ordin. penit., a tenore della quale ogni allontanamento dal luogo di detenzione da parte del condannato, indipendentemente dalla sua durata, darebbe luogo a una sua responsabilità per il delitto di evasione di cui all’art. 385 cod. pen.

Tale discrasia determinerebbe la violazione del criterio di delega dettato dall’art. 1, comma 17, lettera n), della legge n. 134 del 2021, che prescriveva al legislatore di «mutuare dagli articoli 47 [recte: 47-ter] e 51 della legge 26 luglio 1975, n. 354, […] la disciplina relativa alla responsabilità penale per la violazione degli obblighi relativi alle pene sostitutive della semilibertà [e] della detenzione domiciliare»; con conseguente violazione dell’art. 76 Cost.

Il rimettente si duole altresì della violazione dell’art. 3 Cost., che deriverebbe dalla irragionevole disparità di trattamento del condannato alla pena sostitutiva rispetto al condannato ammesso alla corrispondente misura alternativa.

E il rimedio auspicato è, qui, il riallineamento della disciplina dell’allontanamento non autorizzato a quella prevista dall’art. 47-ter, comma 8, ordin. penit.

2.– In punto di ammissibilità delle questioni, occorre rilevare quanto segue.

2.1.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, anzitutto, un difetto di motivazione sulla rilevanza di tutte le questioni prospettate, non avendo il rimettente adeguatamente ricostruito la fattispecie oggetto del giudizio a quo.

L’eccezione è solo parzialmente fondata.

Il rimettente si trova a vagliare un’istanza di concordato con rinuncia ai motivi di appello ex art. 599-bis cod. proc. pen., nella quale le parti hanno chiesto l’applicazione della pena di quattro anni di reclusione, sostituita nella pena della detenzione domiciliare sostitutiva prevista dal nuovo art. 56 della legge n. 689 del 1981. La decisione se accogliere o meno tale richiesta ai sensi dell’art. 599-bis, comma 3, cod. proc. pen. necessariamente include anche una valutazione sulla sussistenza dei presupposti per la sostituzione della pena detentiva nella misura concordata dalle parti, nonché sulla congruità dell’applicazione al condannato della detenzione domiciliare sostitutiva, avuto riguardo alla sua specifica disciplina.

Fra le tre disposizioni all’esame – gli artt. 56, 69 e 72 della legge n. 689 del 1981, come sostituiti dal d.lgs. n. 150 del 2022 – deve però ritenersi che il giudice a quo sia chiamato a vagliare la possibile applicazione del solo art. 56. Quest’ultima disposizione detta, infatti, la disciplina che sarebbe immediatamente applicabile al condannato, senza alcuna necessità di ulteriori provvedimenti giudiziari, non appena la sentenza di condanna a pena sostituita pronunciata nei suoi confronti diventi esecutiva.

Viceversa, non spetta alla Corte d’appello rimettente fare applicazione degli artt. 69 e 72 della legge n. 689 del 1981. Non dell’art. 69, le licenze ivi disciplinate essendo di competenza del magistrato di sorveglianza; e non dell’art. 72, la cui applicazione sarà riservata al giudice penale che debba eventualmente provvedere sulla responsabilità penale del condannato che si sia indebitamente allontanato dai luoghi in cui era ristretto.

Ne consegue l’inammissibilità, per irrilevanza nel giudizio a quo, di tutte le questioni concernenti le disposizioni che modificano gli artt. 69 e 72 della legge n. 689 del 1981 (supra, punti 1.2. e 1.3.).

2.2.– Quanto alle questioni concernenti il nuovo testo dell’art. 56 della legge n. 689 del 1981, l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce parimenti la loro inammissibilità, stante il divieto di pronunce di illegittimità costituzionale in malam partem in materia penale.

Anche in questo caso, l’eccezione è solo parzialmente fondata.

2.2.1.– L’eventuale accoglimento delle questioni prospettate inciderebbe, in effetti, in senso peggiorativo sulla risposta punitiva nei confronti del condannato, determinando un inasprimento del regime sanzionatorio connesso all’applicazione della detenzione domiciliare sostitutiva, che negli auspici del rimettente dovrebbe essere riallineato – attraverso una pronuncia sostitutiva (supra, punto 1.1. in fine) – a quello oggi applicabile all’omonima misura alternativa alla detenzione.

La costante e risalente giurisprudenza di questa Corte afferma che «l’adozione di pronunce con effetti in malam partem in materia penale risulta, in via generale, preclusa dal principio della riserva di legge sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale, rimettendo al “soggetto-Parlamento” (sentenza n. 5 del 2014), che incarna la rappresentanza politica della Nazione (sentenza n. 394 del 2006), le scelte di politica criminale (con i relativi delicati bilanciamenti di diritti e interessi contrapposti), impedisce alla Corte, sia di creare nuove fattispecie o di estendere quelle esistenti a casi non previsti, sia di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti, comunque sia, alla punibilità (ex plurimis, sentenze n. 17 del 2021, n. 37 del 2019, n. 46 del 2014, n. 324 del 2008, n. 394 del 2006 e n. 161 del 2004; ordinanze n. 219 del 2020, n. 65 del 2008 e n. 164 del 2007)» (sentenza n. 8 del 2022, punto 4 del Considerato in diritto, nonché – nello stesso senso – ordinanza n. 29 del 2022).

2.2.2.– Tale principio soffre, peraltro, rilevanti eccezioni, gradatamente enucleate dalla giurisprudenza di questa Corte (per una rassegna di tali eccezioni, sentenza n. 37 del 2019, punto 7.1. del Considerato in diritto, e ivi puntuali riferimenti ai precedenti rilevanti).

Una di esse concerne le censure concernenti i vizi di formazione degli atti aventi forza di legge in materia penale (in materia di decreto-legge, sentenze n. 8 del 2022, punto 5 del Considerato in diritto, e n. 32 del 2014, punto 6 del Considerato in diritto; in materia di delegazione legislativa, sentenze n. 105 del 2022, punto 6.3. del Considerato in diritto, n. 189 del 2019, punto 9.4. del Considerato in diritto, e n. 5 del 2014, punto 5.2. del Considerato in diritto): censure che questa Corte considera senz’altro ammissibili anche laddove il loro accoglimento possa produrre effetti in malam partem in materia penale. Infatti, «[s]e l’esclusione delle pronunce in malam partem mira a salvaguardare il monopolio del “soggetto-Parlamento” sulle scelte di criminalizzazione, sarebbe illogico che detta preclusione possa scaturire da interventi normativi operati da soggetti non legittimati, i quali pretendano di “neutralizzare” le scelte effettuate da chi detiene quel monopolio – quale il Governo, che si serva dello strumento del decreto legislativo senza il supporto della legge di delegazione […], o le Regioni, che legiferino indebitamente in materia penale, loro preclusa (sentenza n. 46 del 2014)» (ancora, sentenza n. 8 del 2022, punto 5 del Considerato in diritto).

La censura formulata in riferimento all’art. 76 Cost. deve, pertanto, considerarsi ammissibile.

2.2.3.– A un esito opposto si deve, invece, pervenire per ciò che concerne le censure formulate in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost. (quest’ultima, peraltro, inammissibile anche in ragione della totale assenza di motivazione nell’ordinanza di rimessione).

Rispetto a tali censure non è invocabile l’eccezione al generale principio dell’inammissibilità di questioni in malam partem in materia penale, concernente le questioni su norme penali di favore, pure consolidata nella giurisprudenza di questa Corte a partire dalla sentenza n. 148 del 1983; eccezione che riguarda, come chiarito in particolare dalla sentenza n. 394 del 2006, quelle «norme che sottraggano determinati gruppi di soggetti o di condotte alla sfera applicativa di una norma comune o comunque più generale, accordando loro un trattamento più benevolo». Ipotesi, queste ultime, rispetto alle quali l’ablazione, ad opera di questa Corte, della lex specialis comporta l’«automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di una incostituzionale disciplina derogatoria»; tale riespansione costituendo nient’altro che «una reazione naturale dell’ordinamento – conseguente alla sua unitarietà – alla scomparsa della norma incostituzionale […], senza che in siffatto fenomeno possa ravvisarsi alcun intervento creativo o additivo della Corte in materia punitiva» (punto 6.1. del Considerato in diritto).

Ora, la disposizione che in questa sede viene all’esame – l’art. 56, primo comma, della legge n. 689 del 1981, come modificato dal d.lgs. n. 150 del 2022, disciplinante la pena sostitutiva della detenzione domiciliare – non costituisce lex specialis rispetto agli artt. 47-ter e 47-quinquies ordin. penit., che disciplinano l’omonima misura alternativa. Le discipline che vengono qui in considerazione attengono, infatti, a istituti diversi, regolati ciascuno nell’ambito di un differente corpus normativo (la legge n. 689 del 1981, da un lato, e la legge sull’ordinamento penitenziario, dall’altro), e applicabili in un caso dal giudice della cognizione, nell’altro dal tribunale di sorveglianza. Inoltre, l’eventuale ablazione, da parte di questa Corte, della disposizione oggi censurata, non determinerebbe affatto l’automatica riespansione della disciplina dettata dalla legge sull’ordinamento penitenziario: tant’è vero che lo stesso giudice rimettente auspica non già una pronuncia meramente ablativa, bensì una pronuncia che sostituisca l’attuale disciplina dettata dall’art. 56 della legge n. 689 del 1981 con quella prevista dagli artt. 47-ter e 47-quinquies ordin. penit.

Dal che l’inammissibilità anche delle censure ex artt. 3 e 27 Cost. relative all’art. 56, primo comma, della legge n. 689 del 1981, come sostituito dal d.lgs. n. 150 del 2022.

2.3.– In definitiva, la sola censura che deve essere vagliata nel merito è quella relativa al menzionato nuovo testo dell’art. 56, primo comma, della legge n. 689 del 1981 in riferimento all’art. 76 Cost.

3.– Tale censura non è fondata.

3.1.– Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, di recente estesamente ricapitolata, «[i]l controllo sul superamento dei limiti posti dalla legge di delega va […] operato partendo dal dato letterale per poi procedere ad una indagine sistematica e teleologica per verificare se l’attività del legislatore delegato, nell’esercizio del margine di discrezionalità che gli compete nell’attuazione della legge di delega, si sia inserito in modo coerente nel complessivo quadro normativo, rispettando la ratio della norma delegante (sentenze n. 250 e n. 59 del 2016; n. 146 e n. 98 del 2015; n. 119 del 2013) e mantenendosi comunque nell’alveo delle scelte di fondo operate dalla stessa (sentenza n. 278 del 2016)» (sentenza n. 22 del 2024, punto 8 del Considerato in diritto). Nella medesima pronuncia, si è altresì precisato che «[t]ra l’elemento letterale e quello funzionale-teleologico esiste un rapporto inversamente proporzionale: meno preciso e univoco è il primo, più rilevante risulta il secondo»; e che «[l]a verifica di conformità della norma delegata a quella delegante richiede lo svolgimento di un duplice processo ermeneutico che, condotto in parallelo, tocca, da una parte, la legge di delegazione e, dall’altra, le disposizioni emanate dal legislatore delegato, da interpretare nel significato compatibile con la delega stessa» (ancora sentenza n. 22 del 2024 punto 8 del Considerato in diritto).

3.2.– Nel caso ora all’esame, come già rammentato, l’art. 1, comma 17, lettera f), della legge n. 134 del 2021 aveva dettato il seguente criterio di delega: «per la semilibertà e per la detenzione domiciliare mutuare, in quanto compatibile, la disciplina sostanziale e processuale prevista dalla legge 26 luglio 1975, n. 354, per le omonime misure alternative alla detenzione».

Già sul piano letterale, la presenza della clausola «in quanto compatibile» indica che il Governo non fosse affatto tenuto, nell’ottica del legislatore delegante, a riprodurre pedissequamente la disciplina della misura alternativa parimenti denominata “detenzione domiciliare”, ma che avesse il potere di operare tutte le modifiche necessarie affinché quella disciplina, calibrata sulla fase esecutiva della pena, potesse essere adattata alla fisionomia di una pena sostitutiva da applicare già con la sentenza di condanna, e dunque già in fase di cognizione.

Quanto alle finalità complessive della riforma delle pene sostitutive perseguite dal legislatore delegante, esse emergono, in particolare, dalla relazione finale della Commissione di studio istituita con d.m. 16 marzo 2021 per elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in materia di prescrizione del reato, sulla base della quale è stato formulato l’emendamento 1.502 del 14 luglio 2021 di iniziativa governativa al disegno di legge A.C. 2435, che è all’origine della delega conferita dall’art. 1, comma 17, della legge n. 134 del 2021.

Tale relazione aveva auspicato, tra l’altro, che «l’istituto della sostituzione della pena detentiva, contestuale alla condanna da parte del giudice di cognizione, possa essere opportunamente rivitalizzato, con impatto positivo sulla deflazione penitenziaria e processuale». La stessa relazione, conseguentemente, aveva proposto tra l’altro di «modificare la tipologia delle pene sostitutive in modo tale da valorizzare contenuti sanzionatori sperimentati con successo in altri contesti normativi; ciò nella consapevolezza che il carcere non deve rappresentare l’unica risposta al reato e che, anzi, per gli effetti desocializzanti che comporta, deve essere evitato quando possibile in favore di pene da eseguirsi nella comunità. Se corredate di contenuti sanzionatori positivi, le sanzioni sostitutive possono rivestire il ruolo di vere e proprie pene sostitutive delle pene detentive. Una riforma delle pene sostitutive promette d’altra parte ripercussioni positive altresì in termini di deflazione processuale, se si valorizzano quelle pene come incentivo ai riti alternativi – procedimento per decreto e patteggiamento, in particolare – il cui ruolo è di primaria importanza in vista della deflazione del carico giudiziario e della riduzione dei tempi medi di durata del processo penale».

Come puntualmente osservato – sostanzialmente all’unisono – dall’Avvocatura generale dello Stato, dal difensore della parte e dall’Unione camere penali italiane, intervenuta in qualità di amicus curiae, il disegno complessivo perseguito dal legislatore delegante si articolava dunque attorno alla finalità di rivitalizzare un istituto – quello delle pene sostitutive – introdotto nel 1981 ma ancora scarsamente utilizzato nella prassi. E ciò per perseguire due obiettivi di fondo, chiaramente emergenti dalla relazione citata.

In primo luogo, quello di mettere a disposizione del giudice di cognizione – già in fase, dunque, di commisurazione della pena – risposte sanzionatorie alternative alle pene detentive brevi o comunque di durata contenuta, la consapevolezza dei cui effetti desocializzanti era stata all’origine della stessa introduzione delle pene sostitutive oltre un quarantennio fa: e ciò in coerenza sia con il principio del minimo sacrificio necessario della libertà personale, più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 22 del 2022, punto 5.2. del Considerato in diritto e ivi ulteriori riferimenti), sia con la necessaria finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost., che deve accompagnare la pena «da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue» (sentenza n. 313 del 1990, punto 8 del Considerato in diritto), e dunque anche nella fase di determinazione del trattamento sanzionatorio appropriato da parte del giudice della cognizione. Principio, questo, di speciale rilievo in un contesto caratterizzato dalla situazione di significativo sovraffollamento in cui, nuovamente, versano le carceri italiane.

In secondo luogo, quello di incentivare definizioni alternative del processo – attraverso la prospettiva di ottenere l’applicazione di pene sostitutive del carcere, anche per effetto degli sconti di pena connessi alla scelta dei riti alternativi –, con conseguente alleggerimento complessivo dei carichi del sistema penale. E ciò in funzione dell’obiettivo ultimo, imposto dall’art. 111, secondo comma, Cost., di assicurare (al singolo imputato e alla generalità degli imputati) tempi più contenuti di definizione dei processi.

3.3.– È, pertanto, alla luce di queste due finalità del legislatore delegante che debbono essere esaminate le variazioni introdotte dal legislatore delegato nella disciplina della pena sostitutiva in esame rispetto a quella prevista dall’art. 284, comma 3, cod. proc. pen. per gli arresti domiciliari, a sua volta richiamata dall’art. 47-ter, comma 4, ordin. penit. per la detenzione domiciliare “ordinaria” e 47-quinquies, comma 3, ordin. penit. per la detenzione domiciliare “speciale”.

Chi sia sottoposto agli arresti domiciliari, ovvero alla detenzione domiciliare alternativa alla detenzione, “ordinaria” o “speciale” può essere autorizzato dal giudice, allorché non possa «altrimenti provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita» ovvero versi «in situazione di assoluta indigenza», ad assentarsi dal luogo di esecuzione della misura soltanto «per il tempo strettamente necessario alle suddette esigenze ovvero per esercitare una attività lavorativa» (art. 284, comma 3, cod. proc. pen.).

Viceversa, ai sensi del censurato nuovo testo dell’art. 56, primo comma, della legge n. 689 del 1981, il condannato ha l’obbligo di rimanere nel luogo in cui la pena deve essere espiata per un termine minimo di dodici ore al giorno, stabilito caso per caso dal giudice in relazione a «comprovate esigenze familiari, di studio, di formazione professionale, di lavoro o di salute del condannato»; e in ogni caso deve essere autorizzato ad allontanarsi da tale luogo per almeno quattro ore al giorno, anche non continuative, per provvedere alle proprie «indispensabili esigenze di vita e di salute».

3.3.1.– Ora, la disciplina qui censurata – indubbiamente più favorevole per il condannato – risulta anzitutto funzionale a conferire spiccata finalità rieducativa alla pena sostitutiva, che nelle intenzioni del legislatore (delegante e delegato) non dovrebbe servire soltanto a evitare i noti effetti desocializzanti della pena detentiva breve, ma anche – in positivo – ad assicurare il mantenimento, e in ipotesi il potenziamento, dei legami del condannato con il proprio contesto lavorativo, educativo, affettivo e in generale sociale. E ciò sulla base di uno specifico «programma di trattamento elaborato dall’ufficio di esecuzione penale esterna, che prende in carico il condannato e che riferisce periodicamente sulla sua condotta e sul percorso di reinserimento sociale» (art. 56, secondo comma): in un’ottica complessiva che l’amicus curiae efficacemente definisce in termini di “pena-programma”, caratterizzata da «elasticità nei contenuti, predeterminati dalla legge, perché funzionale alla individualizzazione del trattamento sanzionatorio», in funzione della garanzia di rieducazione e risocializzazione del condannato e, al contempo, di prevenzione speciale.

Una tale ottica, invece, non solo è assente – come è ovvio – nel regime degli arresti domiciliari, applicati a persone ancora presunte innocenti; ma è anche scarsamente percepibile, sul piano della concreta disciplina legislativa, nelle due forme di detenzione domiciliare attualmente previste come misure alternative alla detenzione: la cui attuale configurazione è soprattutto funzionale ad assicurare l’espiazione della pena al di fuori del carcere a persone particolarmente vulnerabili (in ragione della loro giovane età o, all’opposto, dell’età avanzata o ancora delle precarie condizioni di salute), oppure a chi debba avere cura di figli in tenera età o comunque particolarmente bisognosi; e dunque appare oggi ispirata a ragioni in senso lato umanitarie o solidaristiche, piuttosto che autenticamente rieducative (in questo senso, sia pure con riferimento specifico all’ipotesi della detenzione speciale per i condannati ultrasettantenni di cui all’art. 47-ter, comma 01, ordin. penit., sentenza n. 56 del 2021, punto 2.1. del Considerato in diritto).

3.3.2.– Per altro verso, il regime disegnato dalla disposizione censurata risulta funzionale anche alla seconda ratio perseguita dal legislatore delegante, e cioè alla finalità deflattiva del carico della giustizia penale, perseguita mediante l’incentivazione del ricorso a riti alternativi da parte degli imputati.

Dal momento che il novero degli imputati cui la pena sostitutiva in parola risulta applicabile – quelli, cioè, esposti al rischio di una pena detentiva contenuta entro il limite dei quattro anni, anche per effetto delle riduzioni di pena connesse ai riti alternativi – coincide con la platea dei condannati ai quali il tribunale di sorveglianza potrebbe concedere l’affidamento in prova al servizio sociale, il legislatore delegato doveva necessariamente rendere in qualche modo conveniente per l’imputato la possibilità di negoziare sin da subito con il giudice della cognizione l’applicazione di una pena sostitutiva di per sé più gravosa rispetto all’affidamento in prova.

Per conseguire tale obiettivo, il legislatore delegato ha connotato la pena sostitutiva in parola in modo da assicurare al condannato possibilità di allontanarsi dal domicilio durante la giornata più ampie rispetto a quelle concesse a chi si trovi agli arresti domiciliari o fruisca dei benefici di cui agli artt. 47-ter e 47-quinquies ordin. penit., nell’ambito del programma individualizzato di trattamento di cui si è detto. In tal modo, il Governo ha confidato sulla possibilità che l’imputato possa accettare, in sede di patteggiamento, l’obbligo di permanenza nel domicilio per una parte della giornata in cambio del vantaggio di sottrarsi all’alea della possibile determinazione di una pena superiore al limite di quattro anni in esito a un processo ordinario, ovvero – nell’ipotesi di pena comunque applicata entro il limite dei quattro anni – all’alea di una decisione favorevole da parte del tribunale di sorveglianza sull’istanza di applicazione di una misura alternativa. Decisione, peraltro, che spesso interviene a svariati anni di distanza dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna, con conseguente creazione di un enorme numero di cosiddetti “liberi sospesi”: e cioè di circa novantamila persone condannate in via definitiva, la cui pena è attualmente sospesa ex art. 656, comma 5, cod. proc. pen. in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza sulla misura alternativa richiesta (come emerge dalla risposta scritta del Ministro della giustizia all’interrogazione 4-00072, pubblicata lunedì 13 febbraio 2023 nell’Allegato B ai resoconti della seduta n. 50 della Camera dei deputati).

3.4.– Le scelte del legislatore delegato qui censurate, infine, si inseriscono coerentemente, dal punto di vista sistematico, nel quadro di un complessivo intervento legislativo volto anche – come concordemente sottolineano la difesa della parte privata e l’amicus curiae – ad assicurare risposte sanzionatorie al reato certe, rapide ed effettive, ancorché alternative rispetto al carcere.

Tale risultato è conseguito sia mediante la regola dell’inapplicabilità della sospensione condizionale alle pene sostitutive (art. 61-bis della legge n. 689 del 1981), sia mediante la disciplina dell’esecuzione delle stesse dettata dall’art. 62 della stessa legge n. 689 del 1981: esecuzione che segue immediatamente il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, e durante la quale non possono essere concesse misure alternative alla detenzione (art. 67 della legge n. 689 del 1981), fatta salva la possibilità – per il condannato alla semilibertà o alla detenzione domiciliare sostitutive – di accedere all’affidamento in prova dopo l’espiazione di metà della pena (art. 47, comma 3-ter, ordin. penit.).

In tal modo, come osserva la relazione illustrativa del d.lgs. n. 150 del 2022, la riforma intende realizzare «una anticipazione dell’alternativa al carcere all’esito del giudizio di cognizione», essa stessa funzionale a un più efficace perseguimento di obiettivi di prevenzione generale e speciale, realizzati attraverso l’immediata applicazione di misure che consentono anche di controllare l’eventuale pericolosità sociale del condannato sin dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna (se del caso, mediante specifiche procedure di sorveglianza elettronica ai sensi dell’art. 56, quarto comma, della legge n. 689 del 1981). Controllo che sarebbe invece rinviato anche per vari anni dopo il passaggio in giudicato di una condanna a pena detentiva non sostituita e non superiore a quattro anni, la cui esecuzione resterebbe sospesa sino a che il tribunale di sorveglianza decida sull’istanza di applicazione di una misura alternativa al condannato in forza del citato art. 656 comma 5, cod. proc. pen., nel testo risultante a seguito della sentenza n. 41 del 2018 di questa Corte.

3.5.– In conclusione, le scelte qui censurate del legislatore delegato:

– sono certamente compatibili con il dato letterale della legge delega, che imponeva di mutuare soltanto «in quanto compatibile» la disciplina della detenzione domiciliare stabilita dalla legge sull’ordinamento penitenziario;

– appaiono corrispondere alle due essenziali rationes sottese al disegno del legislatore delegante (mettere a disposizione del giudice di cognizione risposte sanzionatorie non carcerarie a spiccato orientamento rieducativo, e incentivare definizioni alternative del processo);

– e si inseriscono, altresì, in modo coerente all’interno di un quadro normativo volto nel suo complesso ad assicurare risposte certe, rapide ed effettive al reato, ancorché alternative rispetto al carcere.

Conseguentemente, deve escludersi che il legislatore delegato abbia ecceduto dai limiti della delega nell’esercizio del fisiologico margine di discrezionalità connaturato all’istituto stesso della delegazione legislativa: margine che è specialmente ampio – fatte salve eventuali puntuali indicazioni su singoli profili che la legge delega abbia comunque fornito – nel caso in cui il Governo sia chiamato a riforme normative di ampio respiro, come quella oggetto della legge n. 134 del 2021 e poi attuata con il d.lgs. n. 150 del 2022, le quali richiedono interventi su distinti corpora normativi e complesse operazioni di coordinamento sistematico tra le molteplici discipline su cui la riforma deve necessariamente incidere.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 71, comma 1, lettere s) e v), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 27 e 76 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Bologna, sezione terza penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 71, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 150 del 2022, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., dalla Corte d’appello di Bologna, sezione terza penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 71, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 150 del 2022, sollevata, in riferimento all’art. 76 Cost., dalla Corte d’appello di Bologna, sezione terza penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 aprile 2024.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 10 maggio 2024